
La psicologia e altri luoghi… comuni!
Siamo onesti! Quale professione si presta meglio a simpatici luoghi comuni e ad antiche leggende metropolitane, se non quella dello psicologo!
Ci si accorge spesso che questo interesse per la psiche umana si trasforma in passione nel momento in cui si cominciano a guardare appassionatamente in TV tutti quei thriller psicologici in cui, uno spietato serial killer, uno psicopatico o qualcuno di insospettabile viene fermato da un brillante psicologo che riesce ad entrare nella sua mente e a capire che questi comportamenti criminali sono frutto di un’infanzia traumatica, di una figura parentale assente o maltrattante.
E davanti alla sorprendente sagacia dello psicologo scatta implacabile il meccanismo della identificazione che fa maturare l’irrefrenabile desiderio di entrare nella mente di quell’uomo, fin dove nessuno è mai riuscito a spingersi, per rivelare quegli inquietanti misteri che la popolano.
Ma, non sarebbe corretto affermare che noi psicologi siamo bersaglio di errate convinzioni sin dagli anni universitari. Esse cominciano molto prima e ci accompagneranno per tutta la carriera universitaria e oltre! Sì perché lo studente universitario che, dopo la prima tassa di immatricolazione, si accinge a studiare il suo primo libro di psicologia generale, senza saperlo, è già diventato oggetto di miti e credenze popolari diffuse! E allora succede che le persone che gli stanno attorno, compresi amici e parenti, gli rivolgano battute (che coraggiosamente reputano divertenti) tipo: “Allora, da oggi dovrò stare attento a come parlo?!”.
Chi, tra noi psicologi, non si è mai sentito rivolgere esclamazioni come “Chissà che idea ti sei fatto di me adesso!”, davanti ad un aperitivo serale con persone appena conosciute?
Chi, di noi, può dire di non essere mai stato oggetto di pensieri paranoici e persecutori da parte di qualche amico che, dopo uno scambio di battute, sentenziava preoccupato:
“Ma quindi tu sai cosa sto pensando in questo momento?”.
Quale psicologo non si è mai sentito dire almeno una volta una frase con il preoccupante incipit “Ma secondo te…”, (che già non lasciava presagire nulla di buono), seguito da tutta una serie di interrogativi inquietanti e fantasie deliranti in attesa di una magica, univoca risposta rivelatrice?
- “Ma secondo te, se uno mette le mani o le gambe incrociate significa che è chiuso al mondo esterno o ha paura di comunicare?”
- “Se uno cammina con la testa ingiù ha una bassa autostima o non vuole incontrare lo sguardo della gente?”
- “Se uno sbadiglia o guarda l’orologio è perché si sta annoiando o non vuole partecipare alla conversazione?”
E l’unica risposta che si affaccia nella mente dello psicologo viene risolta in un dubbio interno assillante: “Qual è stato il momento cruciale della mia vita in cui mi hanno investito di questi poteri paranormali senza neanche avvertirmi?”.
Ma accanto alla infinita lista dei “secondo te”, c’è la convinzione più difficile da scardinare: il mito che dallo psicologo si vada solo se si è, caparbiamente rappresentata dall’affermazione “Mica sono matto?!”, come se non esistesse altra motivazione all’infuori della follia a spingere l’uomo a rivolgersi ad un aiuto esterno, con la triste conseguenza che questo pregiudizio ha privato e priva tuttora molte persone dell’opportunità di avvalersi di un sostegno, di un ascolto, di una prospettiva nuova per affrontare anche solo un momento delicato di vita.
La psicologia, questa sconosciuta… tanto temuta, ma oggi anche tanto amata, e da tutti, sempre e comunque invocata! E noi psicologi, aldilà di ogni credenza o luogo comune che speriamo di abbattere un pezzetto di più, portatori di un prezioso dono, quello di chi ci affida la sua mente, il suo cuore, la sua anima.
Autrice: Lorella Cartia