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Non trovo le parole: l’ipocognizione

In psicologia, ma non solo, il termine ipocognizione è stato coniato a seguito di una particolare vicenda accaduta all’antropologo e psichiatra statunitense Robert Levy, agli inizi degli anni sessanta, quando visse per diversi mesi sull’isola di Thaiti.
L’impatto con la popolazione thaitiana e l’essere venuto a conoscenza che in questo paese il tasso di suicidi era molto elevato, ha destato nello studioso un certo interesse nel cercare di comprendere quali potessero essere i fattori a spiegazione di questo preoccupante fenomeno.
La considerazione a cui arrivò fu determinata dall’aver appreso che nella lingua locale mancava totalmente la “parola” che permettesse di esprimere ed identificare la sofferenza psicologica, lasciandola così inespressa ed inesprimibile, seppur provata.
Per ipocognizione, infatti, si intende esattamente questo, ossia il non possedere le parole indispensabili per poter esternare la propria realtà emotiva, il dolore esperito, il malessere provato e la tristezza, poiché privi di strumenti semantici in grado di favorire la definizione emozionale.
Questa deduzione ha portato alla luce anche altre importanti considerazioni, come l’aver dimostrato quanto la sofferenza diviene più soffocante e difficile da elaborare se non si ha la possibilità di parlarne e condividerla con altre persone.
L’ipocognizione rappresenta pertanto un forte limite espressivo e relazionale, dal momento che non si possiedono le parole necessarie per gestire il proprio mondo personale e interpersonale.
Se non è possibile nominare il dolore, risulterà altrettanto impensabile riuscire ad elaborarlo al punto che tale mancanza potrebbe dar spiegazione di fenomeni come la violenza e l’aggressività, anche rivolta contro se stessi.
Le parole contribuiscono a costruire la realtà e i legami, con un forte impatto a livello sociale e collettivo; venendo meno il mezzo linguistico, non potendo cioè rappresentare le emozioni, viene altresì a mancare il controllo, sia sul mondo esterno che su quello interno.
In altri termini, non avere le parole per definire ciò che si sta provando, pur sentendolo profondamente, incide sulla qualità della vita negativamente, interferendo anche sulla presa di consapevolezza del malessere sperimentato.
La violenza rappresenterebbe uno degli esiti probabili di questa privazione lessicale; chi non sa o non può nominare la sofferenza tende a tradurla in azioni, con tutte le conseguenze, spesso drammatiche, che ne derivano.
Da qui si evince la straordinaria importanza del linguaggio come forma di espressione e comunicazione interpersonale e di quel senso comune di impotenza che si prova quando non si riesce a spiegare e riconoscere un malessere provato, narrando i propri sentimenti.
Sarà allora indispensabile arricchire il bagaglio di conoscenze sull’importanza dell’utilizzo delle parole, provando attraverso l’informazione continua, la condivisione, la lettura e lo studio ad estendere il personale vocabolario, poiché potrebbe divenire uno degli strumenti in grado di contrastare l’analfabetismo emotivo e liberare dal peso di alcuni dolori percepiti come inesprimibili.

Per approfondire:

  • Anolli L., Psicologia della comunicazione, Il Mulino, 2002;
  • Matarazzo O., Zammuner V. L., La regolazione delle emozioni, Il Mulino, 2015;
  • Watzlawick P., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio Ubaldini, 1978.

Autrice: Ilaria Corona

 

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